Occorre
chiedersi in nome di quale strategia per il Paese ciò stia avvenendo
e se non ricominci la stagione delle alienazioni del patrimonio
pubblico per puro scopo di cassa. Non
voglio entrare nella discussione generale sulle privatizzazioni -
che poi tanto generale non è, perché abbiamo studi specifici sul
loro esito in Italia (dal quarto volume sulla Storia dell’Iri, ai
lavori puntuali di Massimo Florio, al giudizio della Corte dei Conti)
– ma voglio fermarmi sulla specificità del patrimonio che ora
viene sottoposto alla logica della Borsa.
Parto
da una considerazione (ormai) inconsueta che prescinde per un momento
dalle logiche aziendali. L’assetto attuale e l’evoluzione
inevitabile (e annunciata) verso un azionariato di tipo public
company, oppure di tipo Enel, fa perdere a Poste la vocazione come
parte di uno spazio condiviso tra Stato e cittadini, che le è sempre
appartenuto; quello spazio che è tra gli elementi della coesione
sociale. Lo Stato italiano dalla sua formazione, era presente e
identificato nel territorio con le Ferrovie, le Poste, la scuola
elementare e i Carabinieri. E questo è entrato talmente nella
coscienza popolare da aver radicato il convincimento che la presenza
fisica dell’ufficio postale sia parte del servizio universale,
quindi un diritto di cittadinanza (quando lo è di fatto solo la
consegna della corrispondenza). Basta vedere quale allarme sociale ci
sia quando viene alterato un qualsiasi carattere di svolgimento del
servizio (dal cambiamento degli orari, alla rimozione di una cassetta
postale, allo stesso spostamento di una sede, alla chiusura degli
sportelli durante l’estate). Un disservizio in periferia è
percepito come un’offesa sociale arrecata a una intera comunità.
Questa missione “sociale” poteva essere mantenuta, e perfino
accresciuta facendo di Poste Italiane un veicolo per la diffusione
della banda larga su tutto il territorio nazionale. E, su questa
base, si poteva far evolvere l’Ufficio postale periferico verso una
sorta di centro sociale di comunità minori, utilizzando, fuori dagli
orari di apertura e in sale dedicate, i televisori del circuito
aziendale, offrendo un luogo di internet point e di ritrovo per
happening specifici, al tempo stesso usufruendo di una dichiarazione
di tali uffici come “pubblico interesse” per sottrarre alla
sanzione comunitaria degli “aiuti di Stato” l’eventuale
supporto degli enti locali.
Ripeto
è un’ottica desueta perché il capitale sociale non entra più
nelle funzioni del benessere collettivo. Di esso è parte quella
fiducia che lo Stato genera in quanto garante e responsabile della
vita collettiva e dell’erogazione di beni e servizi per fini
comuni. Affidando ai privati (o alla logica privata) il
perseguimento dei fini o cercando la mediazione del mercato nella
soddisfazione dei bisogni sociali e dei servizi pubblici (o, peggio,
lasciando decadere questi ultimi per qualità, copertura e spirito di
servizio) lo Stato perde parte della sua legittimazione e svuota
quella socialità insita negli spazi che condivide con la comunità.:
«Se ci trovassimo a che fare unicamente o prevalentemente con
agenzie private - scrive Judt -, non potremmo che diluire nel tempo
la nostra relazione col settore pubblico per il quale non troveremmo
una manifesta utilità».
Veniamo
all’azienda. Questa va sul mercato prima che la classe politica
attuale e passata si fosse chiesta come utilizzare in una strategia
per il Paese il preziosissimo patrimonio di un’impresa del genere e
le sue spontanee sinergie con la P.A.
Oggi
Poste Italiane è una doppia rete - quella logistica che serve la
corrispondenza e quella fisica degli sportelli postali (13000 sparsi
capillarmente); reti che potrebbero vivere indipendentemente l’una
dall’altra, ma che in realtà si intersecano in una serie di punti
nodali e sono rette da una rete informatica unica interamente
posseduta. Questa non solo è cresciuta fino a essere la seconda in
Italia (dopo quella Telecom, sempre più a proprietà francese), ma
ha fatto e fa da traino tecnologico all’indotto, in gran parte
italiano. Nell’immaginario collettivo Poste è percepita come
impresa di corrispondenza e in subordine anche come impresa di
raccolta di risparmio. Ma è un’impresa complessa multiservizio
(che ha tematiche di internazionalizzazione, di hub finanziario per
una rete europea di cash point, di assicurazione, di logistica,
immobiliari, telefonia, centrali tipografiche, negozi virtuali, ecc.)
–
Tutto ciò potrebbe avere poca importanza dal punto di
vista della parziale privatizzazione se non fosse per
le sinergie che vocazionalmente e per posizione strategica Poste può
sviluppare con la PA (e che solo in parte sviluppa). Combinando
sportelli, consegna e rete informatica Poste è innanzi tutto partner
ottimale della P.A. nel suo ammodernamento e questa partnership
avrebbe giustificato maggiore cautela nell’apertura del suo
capitale ai privati.
Poste
presenta sinergie ideali per i progetti di e-government e di
informatizzazione dell’Amministrazione Pubblica e per l’obiettivo
di allargare il ventaglio della comunicazione tra la Pubblica
Amministrazione e i cittadini. Basti pensare che oggi Poste Italiane,
possiede un archivio relativo a oltre 20 milioni di famiglie, e non
so di quante imprese, ed è in grado di dare un indirizzo elettronico
a ciascuna di esse:
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,
il che potrebbe essere utilissimo per l’Amministrazione, e, in
particolare, per l’amministrazione fiscale. Vi è poi, il campo
della dematerializzazione dei documenti, nel quale è stato avviato
qualche progetto con le Asl per l’archiviazione delle cartelle
cliniche, ma che potrebbe estendersi alla gestione, produzione,
software e archiviazione dati delle tessere sanitarie (rese più
ricche di informazioni anche ai fini di efficacia di politiche di
welfare) o estendersi all’utilizzo sistematico della rete di
corrispondenza per le consegne a domicilio delle medicine,
certificati medici ecc. Sezioni diverse della Pubblica
Amministrazione potrebbero essere messe in comunicazione tra loro e
affidare a Poste i loro archivi (le scuole, ad esempio). La rete
fisica potrebbe dedicare uno sportello per fornire intermediazione
tra cittadini e uffici della Pubblica Amministrazione nel caso di
funzioni che possono essere svolte su base informatizzata (quali
consegna documenti, inoltro domande, ecc.), sull’esempio di quanto
già oggi è anticipato dallo Sportello Amico per i contratti di
allacciamento delle forniture di servizi e altre funzioni che
interessano gli Enti Locali. Ne scaturirebbe la possibilità di una
riorganizzazione di interi uffici della P.A, che oggi svolgono
funzioni di front office per il passaggio di carte e che domani
potrebbero essere riconvertiti. Altri esempi sono possibili.
Il
ruolo avuto da Poste nel processo di concessione dei permessi di
soggiorno già prefigurava questa partnership sui generis con la
Pubblica Amministrazione, sebbene improntata a autonomia e a rapporti
di mercato. I permessi di soggiorno sono stati tutti scannerizzati
(incluse le fotografie), sistematizzati e corretti, in modo tale che
la Questura non abbia che collegarsi e stampare il documento quando
lo ritenga. Anche la consegna passaporti e il servizio integrato
(stampa e consegna) degli atti giudiziari vanno già nella stessa
direzione. Poste opera anche nella riscossione delle entrate dei
Comuni (dove sarebbe auspicabile una sinergia con Equitalia, che è
sempre stata riluttante a prendere in considerazione l’eventualità).
La stessa telefonia potrebbe essere fatta rientrare in questo quadro
di rapporti di interesse pubblico, ad esempio nella tele-salute.
Un’impresa
di questo tipo non può rientrare in un ambito privato in cui queste
funzioni o sono un “business” o non hanno vita (o sono
spezzettate – se va bene - tra una serie di operatori).
Poste
Italiane poteva essere ripensata dal suo azionista pubblico anche in
ulteriori missioni. La rete logistica, che finora è stata
strettamente servente della corrispondenza, poteva consentirle una
evoluzione verso la logistica industriale in senso proprio, almeno
nei trasporti standardizzati. Ma, ovviamente, con seri investimenti
aggiuntivi e una vera e propria strategia di crescita dimensionale.
Non che Poste non si sia indirizzata in questa direzione. Ma non può
realizzarla in proprio (o con Ferrovie, che ne è partner). La realtà
è che fare di Poste-Ferrovie (alquanto complementari) il perno della
logistica in Italia e metterli in grado di competere nel nostro suolo
con operatori internazionali non può essere una decisione presa a
livello aziendale, ma deve essere una decisione del Governo, seguita
da adeguata capitalizzazione, piani integrati per gli hub, acquisto
di tracce ferroviarie all’estero (da parte di Ferrovie) connesse
con qualche strategico porto europeo. Temo che con la
liberalizzazione della rete ferroviaria avvenga il contrario e che
soprattutto le ferrovie tedesche finiscano per intermediare e
intercettare anche un notevole flusso di merci che passa per i nostri
porti.
Penso
che le missioni pubbliche e l’integrazione nel sistema paese –
con il corredo di soluzioni giuridiche, normative, finanziarie e
societarie che non esitassero, se necessario, a riportarla nel
perimetro pubblico - ce le scorderemo. La classe politica non ha
trovato niente di meglio che alienare l’impresa (in parte) in
omaggio a una concezione e una mentalità che essa ha derivato dal
consensus consolidato
di conduzione degli affari economici. Non un grande esercizio di
fantasia. Anche se, bisogna ammettere, è al limite meglio che sia
privatizzata che ne sia ignorata l’esistenza, come è avvenuto
negli anni. Di certo, la conoscenza dell’impresa è minima nella
sfera politica, dove nessuno dei responsabili si è mai preoccupato
di capire che farne delle sue potenzialità, pur nell’attenzione
che ha sempre avuto per i colori degli organigrammi interni. Ma la
botte dà il vino che ha.
Resta
difficile capire cosa i privati possano apportare. Una più
stringente logica di mercato? Più controllo e efficienza? Apporto di
capitali? Know how? Mi sembra che nell’attuale operazione questa
presunzione di principio, comune a tutte le operazioni di
privatizzazione, sia alquanto debole se non nella retorica. Nella
logica dell’apertura del capitale sarebbe stato meglio allora che
Poste si fosse aperta verso un partner di dimensioni equivalenti
(anche estero) capace di apportare, attraverso operazioni societarie,
logistica o altre attività complementari. Oppure che fosse stata
utilizzata per una ingegneria di integrazione tra CDDPP e Poste
Italiane, che -scorporando (e allocando in altri veicoli) le
partecipazioni e le attività della Cassa di sostegno alle imprese -
desse vita a una banca – che in Italia è assente – di supporto
agli enti locali, integralmente orientata al finanziamento delle
infrastrutture e ai servizi (tenuta dei bilanci, finanziamento,
consulenza finanziaria, analisi di prefattibilità dei progetti,
project financing locale, mutui, tesoreria, servizi
all’amministrazione locale, riscossione dei tributi, ecc).
Si
può obbiettare che l’impresa rimarrà saldamente in mano pubblica.
Ma questo non mi fa credere che il suo assoggettamento alle logiche
di Borsa e di “creazione di valore” lasci inalterate natura e
mentalità. Anzi è proprio questo che si vuole “cambiare” E’
un segnale che in vista della quotazione si siano ridotti i giorni di
consegna della posta e sia stata resa esplicita la futura politica di
distribuzione dei dividenti (fissata nell’80% dei profitti). Posta
non era questo; era una società che la collocazione nel perimetro
pubblico faceva orientare, sia pure con carenze, verso la preminenza
della responsabilità sociale (che non ha certo inciso sulla
redditività). Non sono così sicuro, poi, che la presenza dei
privati non imponga una forte riduzione degli sportelli (quelli che
non risultino remunerativi) e dell’occupazione, cui convergono la
logica privatistica e la scarsa voglia dello Stato di retribuire i
costi del servizio universale. Non saranno quelle riportate le cifre
che circolavano in uno studio di qualche anno fa (4.000 sportelli e
20-30.000 unità in meno), ma attenzione allo short
termism proprio della Borsa, che impone
l’accrescimento dei profitti e che, nell’esperienza delle imprese
privatizzate, lo ottiene anche riducendo sia i costi, sia gli
investimenti e le spese in ricerca. Nella logica della creazione di
valore non mi sorprenderei se si fosse indotti a mettere sul mercato
singole branche snaturando l’impresa, che è un tutto integrato.
Forse tutto ciò non avverrà, ma perché allora portare l’impresa
in borsa? Mi chiedo, poi, che ne sarà di quell’immenso asset
immateriale che ha portato finora i lavoratori a identificarsi con
l’impresa e che ha consentito tre lustri di assenza di vertenze
importanti - pur in presenza di alti ritmi di lavoro, bassi salari,
assemblamenti produttivi e vari cambiamenti dell’organizzazione del
lavoro. Di quel sentimento è componente anche il vissuto soggettivo
che assimila l’impiego in Poste all’impiego pubblico (sicurezza
nell’occupazione, welfare aziendale, ecc.); assimilazione che
alcuni vedranno con orrore, ma che rientra anch’esso in un capitale
sociale di fiducia.
In cambio di ciò che sfuma sapremo ogni giorno se Poste
Italiane vale l’1 o il 2% in più o meno rispetto al giorno prima o
se le sue oscillazioni stanno seguendo nel tempo un andamento
discendente o crescente. Eravamo in ansia di saperlo. Non un grande
progetto. Tutto ciò in nome di 3400 miliardi di incasso (che poi non
sono altro che un anticipo – neppure equo - dei dividendi che lo
Stato mancherà di incassare in futuro). Speriamo che se ne faccia
buon uso; a poco serve dire che andranno contabilizzati in conto
capitale, quando a, ben guardare, sono l’equivalente (per giunta
una tantum) dei costi della detassazione della proprietà
immobiliare.
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